Un quartiere “oltre l’orizzonte del nostro sguardo”

Un quartiere “oltre l’orizzonte del nostro sguardo”

Come costruire nuove forme di prossimità con il quartiere in un momento in cui ci è imposta la distanza fisica? Come Mapping San Siro abbiamo pensato di costruire “A un metro di distanza”: un osservatorio sul quartiere San Siro per raccontare e monitorare gli effetti dell’emergenza sanitaria, economica e sociale provocata dal Covid-19. A partire dal 21 maggio ogni martedì e giovedì pubblicheremo i contributi della rubrica “Voci dalla rete locale Sansheroes”: prospettive dei soggetti locali che continuano ad operare all’interno del quartiere, affrontando numerose difficoltà e mettendo in campo pratiche innovative e collaborative.  

Maria Teresa Scherillo (fondatore volontario ed ex consigliere delegato di Fondazione Sodalitas) racconta la propria esperienza di collaborazione con il quartiere, prima e durante il lockdown. Al di là delle difficoltà, San Siro si mostra anche come una scoperta rispetto alle condizioni di abitare difficile di alcuni territori della città. Il momento critico diventa allora occasione per consolidare le relazioni con un contesto che stimola l’impegno responsabile di ciascuno di noi. 

Come è entrata in contatto con il quartiere San Siro?
Si è trattato di una feconda sincronicità. Nei contatti che mantengo regolarmente a Londra con alcune organizzazioni di punta che lavorano nel sociale, mi è accaduto un paio di anni fa di cogliere l’interesse ad affrontare la questione sociale prendendo come riferimento il territorio, il contesto in cui diversi problemi si manifestano in complessi intrecci di causa-effetto, trascurando la prospettiva frazionata e angusta dei silos specialistici.
Rientrata in Italia, sollecitata da questa nuova linea d’interesse, ho incrociato i programmi di Fondazione Cariplo – La città intorno e QuBì – ed alcune occasioni suggestive nello spazio angusto di via Abbiati.
Poco dopo è stato lo stesso ufficio Periferie del Comune di Milano a sollecitare Sodalitas a riflettere su quale supporto il mondo delle imprese potesse dare all’impegno della città per rigenerare alcuni quartieri degradati: la mia ricerca personale trovava un riferimento organizzativo anche formale. Scegliere San Siro-Selinunte è stato facilitato dalla presenza già dal 2013 di un nucleo del DAStU del Politecnico con cui Sodalitas ha in corso da tempo collaborazioni proficue.
È iniziata così una fase più strutturata di avvicinamento, supportata dall’accesso accogliente ai nuovi spazi di via Gigante, alle pubblicazioni e alle diverse iniziative messe in atto dal Politecnico cui ho affiancato un’esperienza di esplorazione in proprio, attardandomi nelle vie e nelle piazze, guardandomi intorno, pronta a cogliere e registrare qualunque segno o fatto inaspettato, anche piccolo, avvicinando i più diversi operatori con un approccio che, in corso d’opera, ho scoperto essere una vera ancorché inconsapevole vocazione con la dignità accademica di “flanerie”. È stato un periodo molto coinvolgente dove ho avvicinato diversi operatori sociali – laici, cattolici, scolastici – costruendo, con autenticità e franchezza, rapporti di fiducia in cerchi via via più ampi, dove maturavano incessantemente nuove domande, ma dove anche sovente occorreva modificare conclusioni temporaneamente raggiunte. Un percorso affascinante di scoperta che mi ha portato a sviluppare verso le persone e i luoghi sentimenti di familiarità e sensibilità di cura. La crescita della consapevolezza mi apriva l’accesso a nuove informazioni mentre constatavo di continuo come l’ascolto accogliente e autentico generi fiducia e apertura e contribuisca ad approfondire la comprensione.   

Che attività di sostegno agli abitanti la hanno vista coinvolta durante il periodo dell’emergenza Covid19? 
Nell’ascolto empatico dei bisogni del quartiere – un oceano di difficile trattazione e di grande complessità –un tema che mobilita le famiglie nel loro rapporto con le istituzioni e dove si concentrano l’impegno e l’attività di tanti soggetti diversi – pubblici e privati – è quell’insieme di rischi/opportunità che riguarda i minori: dalla povertà alimentare a quella educativa, dalla segregazione all’abbandono scolastici. Questioni fondamentali, che se non risolte nel tempo giusto, possono incidere su tutto il percorso di vita delle persone, ma che, prese in tempo, possono aprire prospettive di successo. All’interno dell’obbligo scolastico, la secondaria inferiore è un’occasione di ultima chance. In una situazione di gravi difficoltà, di cui avevo potuto rendermi conto sia intervistando alcuni protagonisti sia partecipando agli incontri del tavolo interistituzionale inserito nel progetto S-confini, l’irruzione della pandemia, con la chiusura delle scuole e l’introduzione della didattica a distanza, ha provocato un’ennesima grave frattura. Molti degli alunni erano sprovvisti dello strumento per collegarsi e rischiavano di perdere completamente il contatto con la scuola e i loro insegnanti.
Il mio impegno è stato quello di individuare una piattaforma di crowdfunding su cui far confluire fondi per l’acquisto di un certo numero di dispositivi che potessero integrare quelli messi a disposizione dall’assegnazione di fondi ministeriali. Fortunatamente, in occasione del Natale, avevo già condiviso con i colleghi alcune delle emozioni e delle esperienze di disorientamento e scoperta dell’incontro ravvicinato con San Siro e i suoi bisogni. È stato così possibile mobilitare un piccolo gruppo di colleghi volontari che si è fatto promotore, con me, della necessaria raccolta fondi.
Purtroppo, non siamo riusciti a coinvolgere anche la partecipazione formale di Sodalitas sia perché, col mettere a disposizione dispositivi, si sconfessava il nostro tradizionale convincimento che il nostro supporto debba mirare non tanto a dare il pesce o nemmeno la canna da pesca, ma ad insegnare a pescare. Né era matura l’altra necessaria rottura di paradigma: privilegiare il punto di vista dei destinatari, assecondare l’aiuto che prioritariamente ci viene richiesto.
Con il supporto della Fondazione Mission bambini, che aveva già adottato una piattaforma di crowdfunding per l’acquisto di tablet per le scuole, il lancio della campagna è avvenuto in tempi brevi. In conclusione, con € 4000 raccolti, grazie al contributo l’aiuto di 24 donatori, abbiamo potuto donare complessivamente 26 tablet LENOVO Tab M10 TB-X505L. 

Con chi ha collaborato e con quali risultati?
La collaborazione è stata estesa e articolata: dall’Area servizi scolastici ed educativi del Comune, alla coordinatrice del progetto Sconfini, Paola Casaletti, che hanno tenuto con continuità i rapporti con i responsabili dei due IC destinatari – Cadorna e Calasanzio – e hanno curato la distribuzione fisica, mentre le scuole hanno sottoscritto con le singole famiglie il relativo contratto di comodato d’uso gratuito. Il processo è stato più lungo e complicato del previsto: 2 mesi dalla messa a punto dell’idea alla consegna dei dispositivi, ma ce l’abbiamo fatta!

Perché ha scelto di impegnarsi nel quartiere?
È capitato, come raccontavo all’inizio. E, poi, via via, è diventato un impegno condiviso e irrinunciabile sostenuto dalla frequentazione regolare, dalla qualità delle persone incontrate, dalla solidità del loro impegno: ad un certo punto, spoglia di precondizioni e pregiudizi, ho maturato un risveglio di consapevolezza – “questo quartiere mi riguarda!” – che non consente di sottrarsi alla chiamata di un preciso bisogno. Con il dono in più di renderci conto che la propria disponibilità innesca e sostiene un circuito reciproco di incoraggiamento e valorizzazione.

Cosa ha messo in evidenza questo periodo secondo lei?
Ho potuto verificare la solidità e persistenza dell’impegno di molti e il valore della rete di rapporti stabiliti in precedenza. Certo le difficoltà sottostanti, e la chiusura fisica delle scuole ha aggravato le situazioni di emarginazione ed esclusione che si cerca di contrastare. Un rammarico comune. E una comune necessità di ridare ali alla speranza. Ho potuto verificare anche quanto sia difficile superare l’estraneità sociale: a Milano si può vivere, lavorare, attraversare la città, senza incontrarsi con i quartieri degradati. Forse la sfida maggiore per chi vive altrove è di acquisire consapevolezza delle condizioni di vita e delle complessità che coinvolgono altre zone della nostra città (un 10-15% della popolazione cittadina).
Cercare di contribuire da altri mondi, da altre condizioni di vita richiede un grosso sforzo di autoeducazione, accettare la guida di soggetti esperti, saper discernere, riconoscere di non sapere, accettare i fallimenti, sapersi mettere in discussione, prendere il tempo necessario per comprendere ciò che deve essere compreso. Qui ci si confronta con “wicked problems”, questioni maledettamente difficili: non ci sono percorsi sicuri e affidabili di soluzione. Se si prova ad essere di aiuto, occorre muoversi con cautela su più livelli osando vie che possono, all’apparenza, sembrare contraddittorie.

No Comments

Sorry, the comment form is closed at this time.