Alcune riflessioni conclusive (Gabriele Pasqui)

Alcune riflessioni conclusive (Gabriele Pasqui)

Questo contributo è una trascrizione dell’intervento fatto dal professor Gabriele Pasqui nel contesto dell’incontro Stadio San Siro: Alimentare il dibattito pubblico, tenutosi il 18 gennaio 2023 presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (Politecnico di Milano).


Mi è stato dato il ruolo non tanto di tirare le conclusioni, ma di provare a riflettere a partire dalle cose che sono state dette oggi. Lo farò con due premesse. La prima è che non sono un esperto di questo specifico processo decisionale; la seconda è che quello che proverò a dire è una posizione personale, ma che riprende molto delle cose dette negli interventi precedenti.

Innanzitutto, partirei dall’osservazione per la quale non è difficile discutere solo dello stadio di San Siro, è difficile discutere di tutti i progetti urbanistici oggi a Milano e anche in altri contesti, in Italia e in Europa. Perché? Per tante ragioni: innanzitutto, perché nel corso degli ultimi venti, trent’anni, l’asse delle decisioni urbanistiche è molto banalmente passato dal pubblico al privato, e ha ridefinito natura e forme della discussione collettiva sulle trasformazioni della città. Questo è a mio avviso un punto molto importante, che spiega anche tante cose, compresa l’opacità del processo relativo allo Stadio. Faccio un esempio, ci sono processi almeno altrettanto importanti rispetto a quello dello stadio a Milano, su cui si discute poco e male: di recente per lo scalo ferroviario di Porta Romana è stato bandito un concorso gestito dal privato e non dal pubblico, del quale abbiamo visto solo il progetto vincitore, senza poter apprezzare gli altri progetti né capire motivazioni e ragioni della scelta. Però dobbiamo sapere che stiamo in questa congiuntura, in questo contesto. Quindi non mi stupisce che questa opacità si sia rivelata anche sul tema dello stadio di San Siro. Seconda cosa che direi è che bisogna anche riuscire, dal nostro punto di vista di osservatori e analisti, a guardare il problema di cui trattiamo scomponendolo nelle sue diverse dimensioni e osservandolo da più punti di vista. 

Primo punto, qual è il problema? Ed è un problema solo? Dalla discussione di oggi emerge che i problemi e le poste in gioco sono differenti. Il primo per me è: bisogna demolire lo stadio sì o no? Capisco che ci possano essere delle motivazioni tecniche per dire non bisogna demolire San Siro, questo è un argomento ma non è l’unico. Non credo che sia l’argomento del Sottosegretario Sgarbi, per esempio, che pure ha manifestato un parere contrario alla demolizione. Secondo punto: ammesso che lo stadio possa essere demolito, bisogna ricostruire un nuovo stadio sì o no? E dove? E da questo punto di vista provo a rispondere mettendomi dal lato di dell’amministrazione comunale. E il mio argomento è: su che cosa il Comune ha interesse in quanto Comune? Senza entrare nel merito del concetto di interesse pubblico, si tratta di comprendere se e in che misura, ma anche a quali condizioni, la presenza delle società di calcio sul territorio comunale sia un valore. Allora, come primo punto, sottolineerei il fatto che le due squadre pagano, per utilizzare una infrastruttura di proprietà pubblica, anche se meno del passato (e infatti, la capacità di contrattazione del pubblico nei confronti del privato è mediamente bassa). Però non possiamo ignorare che quei soldi arrivano al Comune di Milano e sono un introito significativo. Le società però non vogliono ristrutturare lo stadio e non possono essere obbligate a farlo. Ovviamente le società vogliono realizzare uno stadio come quelli di Monaco, di Amsterdam o di Londra, sulla base di argomenti che possiamo anche definire speculativi, ma che sono legittimi. Cosa dovrebbe fare dunque il Comune di Milano? E’ facile dire, e io forse sottoscriverei, “benissimo, care società calcistiche, fate il nuovo lo stadio dove volete”. Però capite che questa non è una decisione indifferente per il Comune di Milano. Perché ci sono delle ragioni economiche, simboliche, di varia natura, per tenere le squadre a Milano. Il punto è, secondo me, che l’argomento del Comune di Milano è: “vorremmo che le squadre Inter e Milan rimanessero a Milano”. Io penso che sia un argomento delicato, perché per me Sesto San Giovanni è come Milano, ma per il Comune di Milano no. Non è la prima volta, ci sono stati miriadi di esempi di questo tipo in cui grandi funzioni urbane venivano proposte appena fuori dal comune di Milano e il Comune di Milano si è preoccupato e si è opposto. Per me il Comune ragiona così e non sono neanche tanti i soldi che interessano al Comune, quanto il fatto che simbolicamente ritiene che la presenza delle società sia rilevante all’interno dello spazio perimetrato dai confini amministrativi. 

Poi ci sono tutti gli aspetti ambientali, discussi dal prof. Pileri, ci sono anche gli aspetti che ha richiamato la professoressa Delera e quelli posti dal prof. Longo. Però a tal proposito, io penso che il problema del quartiere San Siro deve avere una sua soluzione dentro il quartiere San Siro e con soldi, tanti, molti di più, messi sul quartiere San Siro. Perché oggi il rapporto fra il quartiere San Siro, per così com’è, e quello che succede allo stadio mi sembra limitato.  Troverei grave, anche politicamente, che le uniche possibili risorse per il quartiere di edilizia pubblica di San Siro dovessero venire esclusivamente dall’operazione sullo stadio.

Vado velocemente a concludere. Non si tratta solo di capire la natura plurale del problema, ma anche di rispondere alla domanda: «per chi è un problema?». La prof. Cognetti, nella sua analisi del percorso partecipativo, ha mostrato che quello dello stadio è un problema in modo molto diverso a seconda di chi lo definisce. I rendering dei progetti, per esempio, sono ridicoli perché sembra che lo stadio di San Siro sia in mezzo a una prateria, cosa che ovviamente non è. C’è gente che abita a 300 metri dallo stadio. L’interesse di questi ultimi è legittimo, è un interesse molto particolare. Però non c’è solo quello, perché chiaramente San Siro e anche tutte le funzioni che gli stanno intorno non è che siano del quartiere San Siro, ma sono funzioni di Milano e dell’area metropolitana. Poi ci sono gli attivisti, gli attivisti esperti, gli architetti, gli urbanisti, gli esperti di restauro. Ognuno di loro ha un modo di definire il problema che è un po’ differente.

Alcune associazioni locali propongono il referendum. Chissà se è la modalità più trasparente e più corretta: per esempio, se fossero esattamente vere le cose che dice il prof. Pileri, non si dovrebbe fare nessun referendum perché vi sono ragioni tecniche e oggettive che sconsigliano la demolizione. È ancora: è il referendum lo strumento per potenziare la democrazia locale? Questo io non lo so. Quello che abbiamo capito è che non lo è il dibattito pubblico per come è stato gestito. Il dibattito pubblico non serve se non hai delle alternative, eccetera. Francesca Cognetti ha detto una cosa molto precisa: la natura del conflitto oggi dimostra che gli attori locali, per quanto attivi, non sono in grado di mobilitare sufficientemente un conflitto che sia in grado di spostare il rapporto di forze. 

Detto questo, parlando un po’ più da urbanista, quello che a me sembra manchi totalmente è che quello schema che è tentato fatto dal Comune di Milano nello Studio d’Area denominato “Mosaico San Siro”, è una cosa di cui ci sarebbe tanto bisogno, ma è debolissimo. Però quella tecnica-urbanistica non è l’unica argomentazione che può essere portata, perché, ripeto, anche una dimensione di discussione su quali sono i processi e i meccanismi della democrazia per me fa parte di una dimensione su cui noi dobbiamo ragionare. 

In sintesi, teniamo conto che si tratta di un tema complicato, a più facce. Forse più complicato di quel che ci immaginiamo, semplicemente anche rispetto agli interessi degli attori e ai modi in cui si determinano le modalità di decisione. Perché le modalità di decisione, compresi i processi e le procedure di cui parlava l’avvocata Veronica Dini, naturalmente devono essere tenute in considerazione. E quindi penso che tutte le cose che sono state dette dai colleghi a partire dalle loro competenze tecniche vadano tenute insieme a quest’altro pezzo di ragionamento, relativo ai processi decisionali e alle forme di discussione democratica. 

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