Dialogo con il Laboratorio Politico Off Topic

Dialogo con il Laboratorio Politico Off Topic

A cura di Alice Alessandri e Rossella Ferro
Con Gianluca e Luca del Laboratorio
19 aprile 2023, Piano Terra (sede di Off Topic in via Confalonieri a Milano)

Parte I – Il soggetto

Intervistatrice: Puoi descrivere brevemente il Laboratorio Politico Off Topic?

Gianluca: Il laboratorio Off Topic nasce dieci anni fa, inizialmente come collettivo quasi tradizionale, per portare avanti una piattaforma che avesse come punti cardine quello delle questioni ambientali, da un lato, e delle questioni sociali, dall’altro. Nel 2011 era iniziato il lungo cammino che poi ci ha portati ad Expo: c’era già il comitato No Expo e, fino al 2015, il tema portante è stato il mega evento e le questioni a esso relative, ovvero la città in cui si insinua un modello di sviluppo collegato a fenomeni estemporanei ma di forte impatto a lungo termine. Nel 2013 Milano aveva già assunto le dinamiche di sviluppo che adesso sono note, ma che fino a qualche anno prima erano molto differenti. Il primo lavoro del collettivo Off Topic è stato ridefinire i nuovi caratteri delle trasformazioni urbane, che vedevano attori differenti rispetto al passato che ne curavano la direzione a livello finanziario e politico. Dopo vent’anni di centrodestra, nel 2011, si insediò una giunta comunale di centrosinistra che promosse una guida della città che poteva somigliare, soprattutto per come si presentava, a quella precedente ma che in realtà aveva anche dei punti di divergenza. Le questioni collegate alla partecipazione della giunta Pisapia sono state uno degli argomenti dei primi anni, in relazione anche alla questione degli spazi sociali, dei bandi, dei “vuoti”. A partire da questi assi di ragionamento, e dal tema di Expo, si è aperta una riflessione sugli eventi in genere: l’attrazione e la forza che riescono a mettere in campo nella città, con energie che la trasformano e che determinano anche effetti collaterali, principalmente in termini di precarizzazione e turistificazione. Per turistificazione intendiamo il tema del proliferare dell’affitto breve, con un effetto sul costo delle abitazioni al metro quadro. Dopo il 2015, il collettivo decide di darsi una veste ancora più laboratoriale, cercando di mobilitare e allo stesso tempo di produrre prodotti editoriali “seducenti” ma che riescano a fornire una sintesi politica approfondita [Ndr: Gianluca ci mostra una copia di Pieghevole]. Negli ultimi due anni e mezzo, il laboratorio si è allargato anche ad altri soggetti (ricercatori, sindacati, inquilini, altri collettivi, comitati per la casa), con l’obiettivo quello di mettere su mappa quanto si diceva inizialmente:  Milano, luogo della trasformazione, in cui agiscono nuovi attori a cui dare una definizione, tra cui emergono soggetti come Coima, Covivio e Hines – che hanno un potere di attrattività nei confronti dell’amministrazione molto importante perché possono ridisegnare interi quartieri in cambio di oneri di urbanizzazione molto bassi – e gli effetti collaterali di queste nuove dinamiche.

Intervistatrice: Perché vi siete ritrovati a lavorare così frequentemente sulla zona dell’Ovest milanese? Come i cittadini di quella fetta di città vivono l’esposizione ai diversi grandi progetti di trasformazione urbana?

Gianluca: Un po’ è stato il caso, perché alcuni compagni abitano in zona e hanno fatto attività in passato, in particolare rispetto ai parchi urbani che poi si sono consolidati negli anni ’80. Il Parco Pertini era stata una delle vertenze più partecipate, animata dai più “vecchi” che per la prima volta portavano la questione ambientale in ambiente urbano. In generale, l’ovest e, in particolare, i Municipi 7 e 8 sono le zone di Milano con la maggior percentuale di verde. Oggi qualsiasi tipo di attore che partecipi alle trasformazioni urbane si rende conto che, a differenza della logica del passato, tutti i nuovi insediamenti realizzano una parte del valore immobiliare in base ai parchi e agli spazi urbani che offrono nell’intorno. Nella città di Milano questo è più evidente che altrove, anche per via del fatto che Milano era effettivamente una città industriale e pertanto ha grandi spazi in abbandono dal manifatturiero e, di conseguenza, in tali contesti c’è il bisogno di inserire qualcos’altro. Già prima di Expo, si era ragionato sul percorso delle Vie d’Acqua che, nell’idea dell’amministrazione e dei progettisti dovevano arrivare da Expo alla Darsena attraversando i parchi urbani dell’ovest, che sono aree verdi molto importanti riconosciute da chi abita in zona. Sulle Vie d’Acqua si fece una campagna di informazione e mobilitazione che portò all’annullamento dell’opera. Questo è stato il primo passo del collettivo nel territorio dell’ovest, ridefinito proprio in quella sede “Far West”. Da lì, dopo la fine di Expo, è continuata l’onda lunga della nostra ricerca su quel tipo di sviluppo e sono emerse altre questioni, tra cui la Piazza d’Armi e le Scuderie del Trotto, davanti allo stadio di San Siro. Su entrambe le vertenze abbiamo cercato di fare rete con le associazioni locali, prevalentemente ambientaliste, che hanno dato forza e radicamento. In questo contesto, abbiamo iniziato a ragionare sul quartiere San Siro come uno dei due quartieri su cui la mappatura si vuole concentrare. San Siro è periferia, ma in realtà è anche centro a tutti gli effetti, anche prima di City Life, perché c’è in zona una densità di mezzi pubblici importante, un valore del mattone, in alcuni punti, simile a quello centrale e una serie di servizi che in qualsiasi città sono riferibili a una zona centrale. La zona di San Siro è un centro, ma allo stesso tempo al suo interno ha delle zone che sono ovviamente periferiche, nel senso più sociale del termine. Ci sono delle mappe su cui abbiamo provato a fare delle analisi e che mostrano nel raggio di 200 metri si pagano anche 2000 / 2.500€ di differenza al metro quadro. Proprio per questo, tutto quello che adesso vale di meno molto facilmente può vedere impennare il suo valore e quindi può essere un facile investimento da parte di chi ne vuole approfittare.

Intervistatrice: Voi tracciate un legame tra il progetto del nuovo stadio e altre grandi trasformazioni urbane, con particolare riferimento al tema degli ex scali ferroviari. Cos’è che mettete in relazione, cosa vi spinge a tracciare un fil rouge fra queste proposte di trasformazioni?

Gianluca: Noi non pensiamo che ci sia un disegno da parte di alcuni, volto a imporre, attraverso una pianificazione così ragionata, un nuovo modello di città. Noi pensiamo che sia il mercato che può portare facilmente a questo tipo di orizzonte. Il Piano di Governo del Territorio, rispetto al Piano Regolatore, è uno strumento di pianificazione che pianifica molto poco e che lascia molto spazio agli attori immobiliari, permette il mercato dei diritti edificatori e che fa sì che non sia così semplice ragionare su una pianificazione organica e organizzata. Di sicuro, se alcuni grandi progetti prendono piede e vengono realizzati, c’è un effetto domino su tutte le zone limitrofe, soprattutto nel caso in cui commercialmente l’operazione funziona. Per questo insieme a San Siro stiamo mappando il Corvetto, che presenta una questione simile legata allo Scalo Romana e più in generale alla trasformazione degli ex scali ferroviari, grosse aree non edificate alcune delle quali hanno una posizione ormai centrale e su cui gli appetiti della finanza e degli immobiliari da tempo si sono espressi. Appetiti che allo Scalo Romana significano il villaggio olimpico e tutta l’edificazione che adesso è in corso attraverso il progetto di Symbiosis di Covivio, circondando e assediando la parte di quartiere popolare. Vediamo un problema molto simile intorno al quartiere popolare di San Siro con il progetto del nuovo stadio. Per come ragiona il mercato, nella probabilità che ci sia una nuova realizzazione in un luogo, è un dato di fatto che le aree limitrofe si valorizzino: c’è un’attrattività e, nel momento in cui in città sono insediati dei soggetti finanziariamente molto potenti, questa può diventare facilmente un qualcosa di reale. Dieci anni fa, quando siamo arrivati qui [Ndr: La sede di Off Topic è Piano Terra, in via Confalonieri], in Isola c’era un tipo di abitante differente: le abitazioni in quartiere sono col tempo aumentate di costo e chi abitava qui ha pensato bene di vendere a un prezzo alto e di andare ad abitare in Farini, in Maciachini, in Dergano, comprando una casa più grande. Alcuni processi derivano non tanto dalla pianificazione, quanto dal mercato che permette questo tipo di sviluppo. L’altro tema è quello del pubblico, del soggetto che dovrebbe curare la pianificazione. Un po’ è per via dello strumento di pianificazione oggi esistente che pianifica molto poco, un po’ anche per una questione di volontà. E un po’ è perché, se da una parte c’è chi vuole costruire e ha degli scopi e uno spirito ben precisi, dall’altra la controparte oggi è carente di mordente, di rappresentatività. Nel nostro ragionamento, non ci sembra che in Consiglio Comunale o negli ambiti istituzionali ci siano soggetti in grado oggi di rappresentare le istanze di chi vive nei quartieri e di chi viene investito da questi grandi progetti. L’auspicio però non è quello della rappresentanza, ma è quello dell’attivazione sociale, dell’attivazione dei soggetti che sono sul posto, che possiedono le conoscenze e il vissuto che, maggiormente rispetto a quello che è stato fatto negli ultimi anni, devono essere parte della pianificazione, una pianificazione che non deve semplicemente inseguire quali sono i bisogni dei grandi soggetti di Coima, di Covivio, non deve seguire il ciclo della valorizzazione, ma deve creare dei quartieri che siano vivibili, nati dalla collaborazione e non da spinte che vengono dall’esterno della città.


Parte II – Il progetto del nuovo stadio San Siro

Intervistatrice: Quali sono le principali ragioni che identificate come problematiche? Cosa vi ha spinto a mobilitarvi contro la proposta del nuovo stadio?

Gianluca: Rispetto ai tanti progetti che sono stati presentati su Milano, quello del nuovo stadio ha creato malumori e conflitti sin dall’inizio, anche nell’ambito delle istituzioni e delle rappresentanze, perché è un progetto che solleva una serie di problemi che non sono certo sottovalutabili. C’è l’ambito più simbolico dello stadio di San Siro, che va a toccare gli umori di chi vive in maniera nostalgica la città e ci vede un elemento della tradizione cittadina. Quello non è il nostro piano, però è qualcosa con cui fare i conti, ed effettivamente è una delle una delle ragioni per cui i comitati si stanno muovendo. Un altro aspetto è relativo al progetto che è stato presentato inizialmente, un progetto che va a cementificare una grossa parte di un territorio che invece era abbondantemente a verde. Lo stadio di San Siro, poi, è un edificio di proprietà pubblica, parte della città pubblica, su cui non ci sono solo dei costi di manutenzione, ma anche dei profitti. Con questi profitti, il Comune di Milano riesce a finanziare una buona parte dell’impianto sportivo che ha con Milanosport e i suoi diversi centri. A Milano si fa sport a prezzi contenuti grazie alla partecipata del Comune che a febbraio 2023 ha alzato di 1€ i biglietti, ma che comunque continua a consentire di fare sport a un prezzo accessibile. Non è un dato naturale, non è detto che sia sempre così. Poi, nella privatizzazione dello stadio in questo caso c’è anche un abbattimento, che apre ad una questione ambientale, un raddoppio del problema. Però il ragionamento sulla svendita della città pubblica su San Siro è tutto da farsi ed è uno dei motivi che ci spinge a pensare che sia una lotta da portare avanti. Su San Siro ci sono almeno due o tre comitati, fra cui quello referendario, con cui ci sono un importante numero di punti in comune. Noi non crediamo che si possa arrivare ad una soluzione soddisfacente attraverso lo sbocco referendario. Il dibattito sullo stadio c’è stato, molto di più che su altri progetti di trasformazione urbana, però probabilmente non è ancora sufficiente e deve comunque essere ampliato e soprattutto amplificato fuori da San Siro, dove c’è un minor livello di consapevolezza.

Intervistatrice: Dopo la conclusione del dibattito pubblico e le nuove richieste avanzate dal Comune si sono succedute dichiarazioni e proposte, tra cui la proposta dell’area de La Maura del Milan che ha tenuto banco per un po’ di tempo. Adesso sembra che la proposta sul tavolo resti quella dell’abbattimento e ricostruzione di San Siro. Rispetto a queste proposte alternative di cui si è sentito parlare cosa ne pensate?

Gianluca: Dopo che si è infossato il dibattito su San Siro, rimbalzavano voci a proposito nuove evoluzioni che portavano un nuovo stadio da una parte all’altra della città. Questi non sono dei piani B, ma sono dei metodi che le società di Inter e Milan stanno utilizzando per forzare il Comune su San Siro. Il valore immobiliare di un’operazione su San Siro non è comparabile ad un’operazione a La Maura, a Sesto o a San Donato. Il brand San Siro funziona se esiste quantomeno una prossimità. E se, come è dai progetti, si vuole fare una cittadella commerciale di fianco più che lo stadio, non è detto che altrove renda lo stesso valore. Su La Maura c’è stata da subito un’importante presa di posizione da una parte della città che conosce bene la zona e la vuole salvaguardare, con un forte protagonismo del consigliere Enrico Fedrighini, che in zona mira ancora a rappresentare i cittadini a livello delle assemblee. Comunque, è rilevante il fatto che in pochi giorni ci sia stata tutta quella opposizione: questo ci porta a pensare che in quel territorio la tutela del verde sia un tema progressivo e che porta gli abitanti ad attivarsi. È chiaro che ci sono delle lotte che si devono fare, anche se non possono avere degli sbocchi positivi. Però ce ne sono altre che, a maggior ragione, visto che c’è quel livello di reazione, occorre portare avanti. C’è poi l’ipotesi della ristrutturazione dello stadio, non tenuta in considerazione nel dibattito pubblico, che sembra a noi – che non siamo architetti o urbanisti – un qualcosa di fattibile, che non porterebbe sconvolgimenti a livello ambientale e che conserverebbe l’aura dello stadio di San Siro. Ma purtroppo secondo noi le due società di Inter e Milan hanno delle proprietà che sono molto più attente alla realizzazione del nuovo stadio finalizzata alla creazione di patrimonio e di ricchezza piuttosto che all’attività sportiva. Questa non è una peculiarità di Milano, è una tendenza a livello mondiale con cui però bisogna fare i conti a livello locale.

Intervistatrice: Più nello specifico quali sono le vostre istanze? Avete avanzato delle richieste e/o avete in mente uno scenario alternativo che secondo voi il Comune dovrebbe perseguire?

Gianluca: Purtroppo il tema è molto complesso. Le società di calcio sono di proprietà di due soggetti privati e un nuovo stadio deve per forza nascere dall’accordo fra il soggetto pubblico e i due soggetti privati. Il Comune potrebbe anche mantenere pubblico lo stadio così com’è, con la ristrutturazione. Nelle nostre idee ci piacerebbe che San Siro rimanesse pubblico, accessibile. Oggi non è esattamente accessibile, nonostante sia pubblico: i prezzi dei biglietti, sia per i concerti che anche per le partite, non sono proprio alla portata di tutti. Però il Comune può potenzialmente – sebbene non lo faccia – fare da calmiere, da moderatore rispetto a una tendenza sul prezzo dei biglietti. San Siro deve rimanere pubblico perché sono delle entrate, perché è un’attività che non va in perdita, ma incassa. Tutti questi nuovi progetti, al netto degli oneri di urbanizzazione molto bassi, impongono poi all’ente pubblico, a latere, delle modifiche infrastrutturali e viarie che non rientrano nel progetto ma rappresentano ulteriori costi. Quindi, mantenere San Siro pubblico significa non stravolgere tutta la zona, che al contrario comporta una spesa economica, sociale e ambientale. Può sembrare un po’ conservativa – e lo è – questo tipo di posizione, però non ci vengono in mente modi per riuscire a portare nei quartieri delle operazioni immobiliari che riescano ad essere attente alle questioni sociali e ambientali, che non siano di piccoli passi. L’inondare le zone di soldi, di progetti, di cemento e di novità per gli abitanti difficilmente potrebbe essere sostenibile: anche gli abitanti della parte bene di San Siro non sono favorevoli a quel tipo di progetto, perché sono arrivati in zona nell’idea di un quartiere centrale ma tranquillo. Non c’è un’ipotesi di nuovo stadio che sia un’ipotesi soft, che abbia un impatto ragionevole, che permetta alla pianificazione di ragionare con gli abitanti, non di andare da loro e di dire “dobbiamo fare queste cose”. Qui, però, ci si rende conto che esiste un trade-off fra i bisogni della città e i bisogni della finanza. La finanza non può ragionare nei tempi che a noi piacerebbero e noi non possiamo ragionare nei tempi invece utili agli sviluppatori. Certo, alcune trasformazioni sono necessarie, perché ci sono delle aree che sono effettivamente abbandonate, come nel caso delle Scuderie del Trotto. Su di esse avevamo cercato di stimolare un processo partecipativo che immaginava nell’area dei servizi e delle soluzioni utili e leggere, ad uso e consumo del quartiere, e non ad uso e consumo di Hines o di chi vuole fare un investimento.

Intervistatrice: Qual è la vostra idea di città a questo punto? Se e come confligge con l’idea di città che sta dietro un progetto come quello dello stadio?

Luca: Sicuramente immaginiamo una città molto ricca di spazi, con una gestione ed erogazione dei servizi pubblici non per forza fatto dal pubblico, ma anche realizzato in maniera autogestita, volontaristica, del basso, mutualistica, per tutti. Una città dove, al centro dello scambio, della relazione, di qualsiasi sia il motivo per cui si vive la città, non ci sia necessariamente una logica di profitto. Vale anche per l’abitare, perché una città più pubblica vuol dire innanzitutto che la casa è un bene pubblico, a prescindere da chi ne sia il proprietario, perché l’abitare è un diritto. Se l’abitare si concretizza nella casa, allora la casa deve rispondere ad un concetto pubblico di bene e quindi chi non può accedere alla casa in altri modi deve necessariamente ricevere una risposta pubblica popolare, non appaltata al privato. L’edilizia convenzionata deve essere veramente tale, non deve essere un modo per mascherare interventi privati calmierati con fantomatici benefici che poi sono 4 o 5 appartamenti lasciati a 600/700€ al mese di affitto! Deve richiamarsi al concetto dell’edilizia cooperativistica e mutualistica, per permettere anche a cooperative costituitesi dal basso – e non solamente ai grandi conglomerati immobiliari finanziari – di condividere la realizzazione e la costruzione di case che poi restano una proprietà indivisa. La proprietà indivisa non genera consumo di suolo, rompe il meccanismo della procreazione finanziaria legata alla rendita immobiliare che c’è dietro allo sviluppo che sta vivendo oggi la città, dove tutto ciò che ha a che fare con l’abitare – che sia il lusso, lo studentato, il commerciale inteso come sedi di uffici, ma anche uffici pubblici – e la risposta ai bisogni di chi non può permettersi una casa a 3.000 / 6.000€ al metro quadro sono lasciati al privato con l’housing sociale, che ha criteri di accesso che non sono quelli della casa popolare e pubblica. La nostra è un’idea di città dove lo spazio pubblico permetterebbe anche una mobilità veramente dolce, sostenibile, lenta, e una città dove il trasporto pubblico è gratuito.

Gianluca: Da qui la necessità di opporsi a questo tipo di grandi progetti sui quartieri, perché tutta questa città desiderata nei masterplan non compare, se non in maniera molto limitata. C’è sempre una componente di business sociale su nuovi progetti – al di là del progetto del nuovo stadio di San Siro che sull’abitativo non introduce nulla – ma ovunque c’è una porzione di housing sociale che viene usata per ottenere lo scomputo degli oneri di urbanizzazione. Non incide assolutamente sul mercato immobiliare e non offre una soluzione a chi ne ha bisogno. Perciò dal 2011 ogni volta che vengono presentati questi progetti li vediamo di cattivo occhio, perché sono il sintomo di una tendenza che porta la città altrove.


Parte III – Partecipazione e conflitto

Intervistatrice: Volevamo analizzare con voi il tema della partecipazione e del conflitto. C’è stata partecipazione e si è prodotto conflitto intorno alla vicenda dello stadio, secondo voi?

Gianluca: Dal punto di vista della partecipazione, si pone il tema dello strumento del dibattito pubblico. La traduzione italiana del dibattito pubblico è molto particolare. Siamo intervenuti solo dall’esterno nell’appuntamento sulla sostenibilità ambientale, perché l’intero impianto del dibattito pubblico ci è piaciuto poco. Era sostanzialmente un dibattito per individuare possibili compensazioni su un intervento che comunque era da fare. Non era un dibattito che concedeva la possibilità di rimettere in discussione il progetto presentato dalle squadre e quindi di non farlo. Nella versione francese del dibattito pubblico – che pure non funziona tantissimo ed è molto criticato – sugli ultimi 100 dibattiti pubblici, in 6 casi il progetto è stato respinto, in una sessantina di casi ci sono state modifiche, in una trentina di casi il progetto è andato avanti così come è stato presentato. Quindi un minimo di impatto l’ha avuto. Per come è stato strutturato qui, invece, ci è sembrata più una serie di appuntamenti per illustrare il progetto e convincere i partecipanti della sua bontà. Per questo abbiamo girato un po’ alla larga dal dibattito. Dopodiché, già il fatto che ci sia stato è un segno che anche la testa dell’amministrazione comunale non sia molto convinta del progetto. Di conseguenza ha dovuto cercare uno strumento per legittimarlo. Questa legittimazione non è avvenuta, probabilmente più per un livello quantitativo di partecipazione o forse per come è stato promosso. A latere, si è svolto un altro dibattito pubblico sui giornali sportivi in cui prendevano parola le società e il Comune. Questo non ha fatto bene al dibattito pubblico, il progetto ne è uscito indebolito, probabilmente anche per via di problemi che sono collegati alla situazione finanziaria delle due società, che è un tema che non ci tange direttamente.

Luca: Sul tema della conflittualità, i quartieri dell’ovest, vuoi per la loro tradizione storica, vuoi per la loro connotazione di periferia popolare, hanno sviluppato già negli anni ‘70 forti conflittualità, prima per avere servizi e per essere collegati alla città con una mobilità efficace, e poi per avere realizzate quelle compensazioni – le Leggi Parchi – che erano il contrappeso alla forte urbanizzazione che quelle zone avevano avuto negli anni ’60 / ‘70. Dalla fine degli anni ‘80 in poi le lotte in zona hanno avuto al centro proprio il voler preservare la fortuna e la particolarità di avere un territorio urbano con delle forti caratteristiche di verde storico, profondo, con alberature e sistemi boschivi endemici, con vaste zone ancora agricole, con cascine, ma anche con parchi – delle Cave, di Trenno, del Monte Stella – che sono frutto invece del recupero urbanistico della città dei boschi. Ovviamente, difendere questo vuol dire difendere la qualità della vita di quelle zone, ma anche il 30% del patrimonio verde della città. Per cui, si è sviluppata negli anni una forte conflittualità quando ci sono stati a vario titolo, dagli anni ‘90 in poi, piccoli e medio-grandi progetti o minacce – l’ultimo appunto è l’idea dello stadio a La Maura – che potessero alterare quelle caratteristiche. Non appena è uscita la proposta de La Maura, c’è stata la capacità dei quartieri intorno di produrre assemblee partecipate, presidi, cortei. C’è un’attenzione alta rispetto a questi temi, esemplare è la vicenda del bosco di via Falck, una vicenda più piccola che riguarda una speculazione su un’area che oggi è un bosco. In poche settimane si è creato il comitato e si sono fatte assemblee più che partecipate, con centinaia di persone, ma soprattutto si è fermata la macchina amministrativa che stava andando avanti. A quasi un anno da queste prime mobilitazioni, tutto è stato bloccato. È chiaro che è una situazione sospesa, si può vincere e si può perdere, però intanto quel progetto è fermo. Nell’ovest ogni tanto si vince. E quindi la speranza, anche rispetto alla vicenda del quartiere San Siro, che è l’altra vittima potenziale oltre alle aree verdi, è di poter creare un fronte forte di lotta che dica questo è patrimonio pubblico, che queste case devono rimanere pubbliche, vanno ristrutturate, vanno messe in condizione di rendere degna la vita di chi ci vive e non date in pasto all’immobiliare di turno, che fa l’accordo con Cassa Depositi e Prestiti, e le trasforma da case popolari a case a 600 / 800€ al mese di affitto, come se fossero case del libero mercato.

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